5 dic 2010

Pessime storie: il prof. che non aveva capito niente

Fino a oggi ho proposto solo piatti gustosi, a questo giro invece il pepe ve lo spargo sul naso. Perché il libro che vedete a lato, "Bianca come il latte, rossa come il sangue" di Alessandro D'Avenia, tanto osannato dalla critica e spinto dalla casa editrice, è veramente un esempio di ciò che di peggio la letteratura contemporanea sta partorendo nel nostro secolo. Se Paolo Giordano vi è sembrato sopravvalutato, aspettate di leggere (in biblioteca, mi raccomando) questo: un concentrato di banalità e di superficialità da far spavento pure a Moccia (che, tutto sommato, non ha mai preteso d'essere preso sul serio). Di questo volume salvo solo l'idea di contrapporre i due colori, bianco per il vuoto e rosso per l'amore. Ero partita entusiasta alla lettura della prima pagina: mi aspettavo una storia "rossa come il sangue" e invece è stata solo "bianca come il latte". Di più: insapore. E soprattutto, mi ha fatto una gran rabbia. Perché non c'è spessore in tutto quel flusso pretenzioso di parole messe in bocca a un sedicenne. E pensare che l'autore è un insegnante, uno che dovrebbe cercare di dare gli strumenti giusti ai ragazzi, quelli che ti serviranno poi, da adulto, per stare a galla durante il maremoto. E invece cosa fa? Li riempie di vacuità semplicistiche, da prete di periferia, oserei dire. Il modo in cui il prof. D'Avenia affronta di superficie il cervello di  Leo, protagonista adolescente, si macchia di un peccato ulteriore e imperdonabile per uno scrittore: non c'è abbastanza adesione emotiva nella narrazione. Ho vissuto da ragazza quello che ha vissuto Leo, pur non essendo innamorata del mio compagno di classe che si ammalò a soli quindici anni. E davanti al dolore e all'improvvisa tridimensionalità della morte, che quasi abbracci nel suo disgregare la dignità e il corpo della persona, non conta più né sogno né illusione. C'è solo una profonda impotenza, un senso di smarrimento che ti divora l'anima, perché non lo accetti, non puoi accettarlo a sedici anni, che tutto debba finire prima che inizi. Non c'era nessun "caro Dio" a cui scrivere, solo tante domande senza risposta, tanti perché, che nessun adulto può riuscire a spiegare, e rabbia. Non la rabbia raccontata in queste pagine, che è più simile a un capriccio che a una reazione a un profondo silenzio Celeste. Non si può scrivere a tavolino un dolore di tale sorta, solo perché lo si ritiene "educativo" o "d' impatto" per i potenziali lettori. Non serve la retorica per spiegare la vita. Il dolore è quanto di più riesca a farci capire quanto essa valga, ma anche quanto sia profondamente ingiusta. E silenziosa: bianca come il latte.

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